Digital Sequence Information, uno strumento per una giusta condivisione dei benefici della biodiversità
L’acido deossiribonucleico (DNA) è una molecola a doppia elica presente in tutti gli organismi viventi, costituita da sequenze di nucleotidi. Ogni nucleotide comprende uno zucchero, un gruppo fosfato e una base azotata (adenina, timina, citosina o guanina). L’ordine delle basi determina la sequenza genetica (gene), che contiene le informazioni per costruire proteine e altre molecole essenziali per le funzioni vitali delle cellule.
Negli ultimi decenni, le tecnologie di sequenziamento del DNA hanno permesso agli scienziati di leggere il codice genetico di moltissimi organismi, identificando geni utili alla produzione di farmaci, alimenti, cosmetici, bioplastiche e altri prodotti. Una volta individuato un gene d'interesse, è possibile digitalizzarne la sequenza—generando una Digital Sequence Information (DSI)—e inserirla in microrganismi che producono i composti desiderati. Questo processo ha reso possibile lo scambio globale e digitale delle informazioni genetiche, spesso tramite banche dati pubbliche accessibili liberamente.
Un esempio emblematico è l’enzima del Thermus aquaticus, batterio scoperto nelle sorgenti calde di Yellowstone, che ha rivoluzionato la PCR, fondamentale per i test diagnostici (tra cui quelli per il Covid-19). Il sequenziamento del virus SARS-CoV-2 ha permesso la rapida creazione di vaccini salvavita. Altri casi includono batteri che degradano la plastica, la galantamina del bucaneve contro l’Alzheimer, composti di spugne marine per la leucemia, e ricerche su piante resistenti ai cambiamenti climatici. Le DSI trovano anche applicazione nella tracciabilità del legname, nella conservazione della biodiversità e nello sviluppo di nuove varietà agricole.
Tuttavia, la crescente diffusione delle DSI ha innescato tensioni geopolitiche. Molti Paesi in via di sviluppo, ricchi di biodiversità, lamentano di essere esclusi dai benefici economici derivanti dall’utilizzo delle loro risorse genetiche, spesso digitalizzate e sfruttate da aziende biotech nei Paesi sviluppati. Questi ultimi, dove si concentrano le maggiori industrie farmaceutiche, cosmetiche e agroalimentari, beneficiano economicamente senza dover pagare royalty o fornire compensazioni.
La Convenzione sulla Diversità Biologica (CBD), firmata nel 1992, riconosce il diritto sovrano degli Stati sulle risorse biologiche presenti nei loro territori e mira a garantire una giusta condivisione dei benefici. Il Protocollo di Nagoya del 2010 ha introdotto un meccanismo (Access and Benefit Sharing – ABS) che prevede il consenso informato dei Paesi fornitori e la stipula di accordi di condivisione dei benefici per accedere e usare risorse genetiche.
Tuttavia, le DSI, essendo digitali e facilmente accessibili, sfuggono ancora a un quadro regolatorio internazionale. Le aziende possono utilizzarle senza obblighi di trasparenza sull’origine dei dati. Questo squilibrio ha acceso il dibattito all’interno della CBD e in altri forum multilaterali (es. WHO CA+, trattato BBNJ, Trattato ITPGRFA), evidenziando la mancanza di regole armonizzate. Ne derivano incertezza normativa, rischi per investimenti e innovazione, e frustrazione tra i Paesi fornitori.
Per affrontare il problema, alla COP16 della CBD (Cali, Colombia, 2024), è stato istituito il Cali Fund for the Fair and Equitable Sharing of Benefits from the Use of DSI on Genetic Resources. Il fondo prevede contributi volontari da parte delle imprese che utilizzano DSI: una quota pari all’1% del profitto annuale (o 0,1% del fatturato). Secondo uno studio ONU, queste tariffe potrebbero generare da 1 a 10 miliardi di dollari all’anno. Il 50% dei fondi raccolti sarà destinato a comunità locali e popolazioni indigene, riconosciute come custodi della biodiversità.
Nonostante l’iniziativa, persistono criticità: la natura volontaria del contributo, l’assenza di sanzioni per chi non aderisce e l’incertezza sui criteri per calcolare le quote. Il Segretariato della CBD analizzerà gli impatti economici del meccanismo tra il 2025 e il 2026, e alla COP17 di Yerevan si discuteranno modelli di redistribuzione basati sulla “ricchezza di biodiversità” e sulle “capacità” dei Paesi. La revisione completa è prevista alla COP18 nel 2028.
Il caso delle DSI rappresenta una sfida globale e un’opportunità per ridefinire le regole del multilateralismo in ambito scientifico, economico e ambientale, promuovendo giustizia e sostenibilità nella condivisione dei benefici derivanti dall’uso della biodiversità.
Lorenzo Ciccarese